LA GRANDE AMBIZIONE

Regia Andrea Segre

Durata 122 minuti

Primi anni Settanta. Enrico Berlinguer assiste al tramonto dell’ideologia di Salvador Allende e delle speranze del popolo cileno, soffocate dal regime di Augusto Pinochet. Questo rafforza ulteriormente in lui la convinzione di trovare una via democratica al Socialismo in Italia, al netto delle ingerenze statunitensi. Non lo ferma nemmeno l’attentato di cui è vittima in Bulgaria: la sua idea è quella di “trasformare l’intera struttura economica e sociale” del Paese, ponendo fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo – in particolare quello dei datori di lavoro sui lavoratori. Il Partito Comunista Italiano del quale è segretario, anche grazie al suo carisma di leader, cresce in percentuale nei sondaggi e alle urne, ma Berlinguer sa di non poter accedere al governo se non attraverso un’alleanza fra le forze popolari antifasciste, ovvero quelle comuniste, socialiste e cattolico-progressiste, unite verso “un’orizzonte chiaro di stabilità”. Ma l’idea del compromesso storico segnerà la fine dell’ascesa alla gestione della cosa pubblica del PCI e determinerà il tragico destino di Aldo Moro.                                                                                                                                                 In Berlinguer – La grande ambizione Andrea Segre non si limita a raccontare alcuni anni cruciali nella vita personale e politica del Segretario del Partito Comunista Italiano finito persino sulla copertina di Time.                                                                                                                                                  Segre non crea un semplice biopic, ma dipinge con pennellate decise il ritratto di una “democrazia zoppa e bloccata”, ieri come oggi gravata dalle influenze straniere, e mai abbastanza coraggiosa nel portare avanti una vera evoluzione socioeconomica. Allo stesso modo il suo film delinea con precisione i limiti della Sinistra italiana anni ’70, soggetta allo scrutinio di Mosca e alla crisi del capitalismo mondiale.
“Se vinciamo, cosa ci lasceranno fare?” è la domanda che aleggia persino su un eventuale vittoria comunista. “Questo è il vostro momento”, dice Andreotti a Berlinguer, ma i per comunisti quel momento non arriverà, e dopo la morte di Moro il Paese “scivolerà nel buio”. Ed è tragicamente ironico che l’unico momento che ha visto i politici italiani allineati e compatti è quello in cui hanno deciso unanimemente di non trattare con i terroristi per il rilascio del politico prigioniero.
In Berlinguer – La grande ambizione c’è una fetta consistente della Storia italiana: la strage di Brescia, il petrolchimico di Ravenna (con l’eco dell’omicidio Mattei), Brezhnev (interpretato da un vero sosia) che cautela Berlinguer contro la possibilità di allearsi alle forze democristiane, il referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, il sessismo malcelato dei militanti di Sinistra, l’attentato delle Brigate Rosse a Francesco Coco, le intercettazioni telefoniche dei servizi segreti e naturalmente l’omicidio Moro come vulnus dal quale l’Italia, e Berlinguer, non si riprenderanno. Enrico, che da piccolo interpretava Robespierre, da grande – nella lettura di Segre – detesterà ogni tipo di divisione, cercherà di smarcare il suo Partito dall’Unione Sovietica inseguendo l’ideale di eurocomunismo che l’avvocato Agnelli, e Confindustria con lui, vedevano come il Male assoluto, condannerà ogni violenza estremista in Italia e la persecuzione politica dei dissidenti nell’URSS, inneggerà alla “realizzazione piena di tutte le libertà dell’individuo, tranne quella di sfruttare gli altri”, e preferirà la collaborazione alla competizione, perseguendo un principio di solidarietà che è un monito al presente. Del resto anche i suoi avvertimenti nei primi anni Settanta contro l’inevitabilità di una crisi strutturale del capitalismo globale danno prova della lungimiranza della sua visione politica.
Lo stile di ripresa è documentaristico, arricchito da materiali d’archivio, e il cast, capitanato da un Elio Germano che si trasforma in Berlinguer davanti ai nostri occhi, fa gara di bravura nel riprodurre il pantheon politico dell’epoca: su tutti svetta Paolo Pierobon, che in un paio di scene inchioda Giulio Andreotti al suo ruolo temibile e ridicolo.
La regia di Segre e la sceneggiatura, cofirmata con Marco Pettenello, sono asciutte e rigorose come lo era Berlinguer, e tanto il regista quanto il suo prim’attore mirano a rendere giustizia ad un personaggio verso cui provano ammirazione e rispetto. Il montaggio di Jacopo Quadri e le musiche evocative di Iosonouncane, pseudonimo del cantautore sardo Jacopo Incani, tengono alta la tensione e sottolineano opportunamente il pathos dell’intera vicenda.
La grande ambizione del titolo non è un esercizio narcisistico ma lo sforzo di elevare un’intera comunità, compiuto da un uomo per cui “potere” era un verbo, non un sostantivo egoriferito. La sua lotta contro “la degradazione della persona umana a scopo produttivo” e contro “la logica dei meccanismi automatici” ci fa desiderare oggi un politico di altrettanta lucidità e levatura istituzionale.
Il Berlinguer di Segre non chiede a nessuno di fare ciò per cui lui sarebbe pronto a sacrificarsi per la ragion di Stato: compreso se si fosse trovato al posto di Moro. Berlinguer sognava una politica “non da utopisti, estremisti, schematici o opportunisti”. Soprattutto, desiderava porsi alla guida di un partito “che rappresenti tutti i lavoratori italiani”: chi oggi può, o vuole, dire altrettanto?

VENERDI’ 18,30
SABATO 18,15
DOMENICA 18,30